Ci sono cinque poltrone lungo le pareti di una stanza grande abbastanza per contenerle e lasciare lo spazio per far passare cmodamente due o tre persone in piedi.
Sono poltrone begie in finta pelle sostenute da un piedistallo nero rettangolare dal quale si alza una colonna di acciaio. Al tremine della colonna un capitello che sostiene la poltrona e da cui partono tante leve per regolare elettricamente la posizione di poggiapipedi, braccioli, schienale e poggiatesta. Insomma poltrone che sono una brutta copia di quelle ipertecnologiche dei dentisti.
Come cinque alberi ornamentali, a fianco di ciascuna poltrona svetta un’asta di acciaio che termina con una ramificazioone di ganci per reggere le buste delle flebo. A mezz’asta una scatola grigia con un display elettrico in cui si raccolgono tutti i tubi che escono dalle sacche delle flebo. E’ una pompa che, una volta impostata assicura il fluire delle medicine secondo la velocità prestabilita. Dalla scatola, per l’alimentazione elettrica, parte un filo nero che termina in una delle cinque prese di corrente presente nella stanza.
Cinque scaffali di finto legno che poggiano su supporti di finto acciaio sono dietro le poltrone. Servono per appoggiare i cinque vassoi di acciaio che contengono le sacche delle flebo, il foglio della tempistica di somministrazione e le eventuali medicine che devono essere somministrate per bocca.
Il piccolo ingresso che ha questa stanza ha sulla sinistra un mobile bar che contiene succhi di frutta e bottiglie d’acqua; sulla destra si apre la porta del bagno.
Ma come ci arrivo qui?
Sveglia alle 06:30 e colazione. Quella colazione salata che mi hanno consigliato per diminuire i fastidi allo stomaco e che funziona (anche un infermiere me l’ha chiesta e ha detto che funziona benissimo): uovo in camicia, prosciutto crudo e pane rigorosamente tostato e di grano duro.
Alle 08:00 si esce. Per ora tutto coperto vengo ancora trasportato con lo scooter, ma con l’aumentare del freddo non credo che ci riuscirò più. Verso le 08:30 entro all’isola Tiberina e in ospedale vado agli ambulatori oncologici del day hospital. E’ una porta chiusa con il telaio azzurro di metallo e un vetro satinato; si suona al citofono e ti aprono. Dentro ci sono due segretarie gentili e, di solito, allegre di loro senza finzioni; oramai mi conoscono e sanno a memoria quello che devo fare, mi danno un foglio con un numero che serve solo ad identificarmi e non per formare una fila; poi esco e mi siedo in una delle sedie messe nel corridoio-sala d’aspetto.
Qui ci sono molti volti noti di “compagni di chemio”, i nuovi appena sentono la chiamata del numero controllano e spesso chiedono come mai sono stati saltati; allora qualcuno degli abitué spiega che “no ilnumero non è la coda ma serve solo ad identificarti, ti chiamano a seconda del medico che devi vedere o di quello che dei fare”. Si perché siamo qui tutti per lo stesso motivo, ma facciamo cose molto differenti tra noi; cosa si deve fare è un’intimità che ho imparato non tutti condividono. In sala d’aspetto si parla poco, si aspetta.
Poi chiamano il mio numero allora ritorno alla porta suono, mi aprono ed entro, “si accomodi alla prima stanza a destra”. L’ambulatorio è una stanzetta piccola, profonda quel che basta per farci entrare, in modo abbastanza sacrificato, la scrivania del medico e le due sedie di fronte. Di fianco alla scrivania, con uno spazio che fa passare o il medico o il paziente, c’è il lettino con il rotolo di carta per il lezuolo che serve per un’eventuale visita.
Il medico mi chiede come sto e intanto cerca nel computer i risultati delle analisi che ho fatto ieri.
“Bene, bene i valori sono buoni, il fegato và bene i reni anche. Come è andata l’ultima chemio?”
“meglio del solito, la diluizione in 1000ml invece che 500 mi ha evitato la flebite..” poi, a seconda del medico, mi fa accomodare sul lettino mi visita e mi pesa. Quindi si passa ai moduli.
Prima stampa quello per il day hospital con le indicazione per la terapia: le pillole di chemio per bocca, una flebo da 20min con un gastroprotettore, la flebo con la chemio per 4 ore, una flebo con il cortisone di 20min ed un’altra di altri 20 min con non so che. Poi i due moduli per la farmacia dell’ospedale dove ritirare le pillole di chemio da portare a casa; le danno sfuse e sono rigorosamente contate. È giusto con quello che costano (circa 3500euro a ciclo) e per quello che servono è sciocco farne scorta. Poi il modulo con le medicine che devo prendere a casa e le modalità di somministrazione. Infine si compila il tesserino con i prossimi appunatmenti.
“Grazie dottore, arrivederci”.
Ripasso nel corridoio-sala d’aspetto ed entro nel day hospital, vado nella sala infermieri a consegnare il foglio della terapia.
“Grazie la chiamiamo noi, ha il numero?”
“No l’ho lasciato dal medico”
“Allora la chiamo per nome”
Ritorno nel corridoio-sala d’aspetto, le persone ora sono di più.
Quando mi chiamano sono oramai le 10:30. Peccato significa che se non ci saranno problemi finirò alle 16:00.
Mi fanno accomodare nella sala con le poltrone, arriva l’infermieria con il vassoio d’acciaio e lo posa nello scaffale dietro alla mia poltrona. Prendo una bottiglia d’acqua dal frigo e mando giù le cinque pillole rosa di chemio.
“Quale braccio usiamo oggi?”
“Il destro” rispondo io e si inizia.
Ci sono cinque poltrone lungo le pareti di una stanza grande abbastanza per contenerle e lasciare lo spazio per far passare cmodamente due o tre persone in piedi.
Sono poltrone begie in finta pelle sostenute da un piedistallo nero rettangolare dal quale si alza una colonna di acciaio. Al tremine della colonna un capitello che sostiene la poltrona e da cui partono tante leve per regolare elettricamente la posizione di poggiapipedi, braccioli, schienale e poggiatesta. Insomma poltrone che sono una brutta copia di quelle ipertecnologiche dei dentisti.
Come cinque alberi ornamentali, a fianco di ciascuna poltrona svetta un’asta di acciaio che termina con una ramificazioone di ganci per reggere le buste delle flebo. A mezz’asta una scatola grigia con un display elettrico in cui si raccolgono tutti i tubi che escono dalle sacche delle flebo. E’ una pompa che, una volta impostata assicura il fluire delle medicine secondo la velocità prestabilita. Dalla scatola, per l’alimentazione elettrica, parte un filo nero che termina in una delle cinque prese di corrente presente nella stanza.
Cinque scaffali di finto legno che poggiano su supporti di finto acciaio sono dietro le poltrone. Servono per appoggiare i cinque vassoi di acciaio che contengono le sacche delle flebo, il foglio della tempistica di somministrazione e le eventuali medicine che devono essere somministrate per bocca.
Il piccolo ingresso che ha questa stanza ha sulla sinistra un mobile bar che contiene succhi di frutta e bottiglie d’acqua; sulla destra si apre la porta del bagno.
Ma come ci arrivo qui?
Sveglia alle 06:30 e colazione. Quella colazione salata che mi hanno consigliato per diminuire i fastidi allo stomaco e che funziona (anche un infermiere me l’ha chiesta e ha detto che funziona benissimo): uovo in camicia, prosciutto crudo e pane rigorosamente tostato e di grano duro.
Alle 08:00 si esce. Per ora tutto coperto vengo ancora trasportato con lo scooter, ma con l’aumentare del freddo non credo che ci riuscirò più. Verso le 08:30 entro all’isola Tiberina e in ospedale vado agli ambulatori oncologici del day hospital. E’ una porta chiusa con il telaio azzurro di metallo e un vetro satinato; si suona al citofono e ti aprono. Dentro ci sono due segretarie gentili e, di solito, allegre di loro senza finzioni; oramai mi conoscono e sanno a memoria quello che devo fare, mi danno un foglio con un numero che serve solo ad identificarmi e non per formare una fila; poi esco e mi siedo in una delle sedie messe nel corridoio-sala d’aspetto.
Qui ci sono molti volti noti di “compagni di chemio”, i nuovi appena sentono la chiamata del numero controllano e spesso chiedono come mai sono stati saltati; allora qualcuno degli abitué spiega che “no ilnumero non è la coda ma serve solo ad identificarti, ti chiamano a seconda del medico che devi vedere o di quello che dei fare”. Si perché siamo qui tutti per lo stesso motivo, ma facciamo cose molto differenti tra noi; cosa si deve fare è un’intimità che ho imparato non tutti condividono. In sala d’aspetto si parla poco, si aspetta.
Poi chiamano il mio numero allora ritorno alla porta suono, mi aprono ed entro, “si accomodi alla prima stanza a destra”. L’ambulatorio è una stanzetta piccola, profonda quel che basta per farci entrare, in modo abbastanza sacrificato, la scrivania del medico e le due sedie di fronte. Di fianco alla scrivania, con uno spazio che fa passare o il medico o il paziente, c’è il lettino con il rotolo di carta per il lezuolo che serve per un’eventuale visita.
Il medico mi chiede come sto e intanto cerca nel computer i risultati delle analisi che ho fatto ieri.
“Bene, bene i valori sono buoni, il fegato và bene i reni anche. Come è andata l’ultima chemio?”
“meglio del solito, la diluizione in 1000ml invece che 500 mi ha evitato la flebite..” poi, a seconda del medico, mi fa accomodare sul lettino mi visita e mi pesa. Quindi si passa ai moduli.
Prima stampa quello per il day hospital con le indicazione per la terapia: le pillole di chemio per bocca, una flebo da 20min con un gastroprotettore, la flebo con la chemio per 4 ore, una flebo con il cortisone di 20min ed un’altra di altri 20 min con non so che. Poi i due moduli per la farmacia dell’ospedale dove ritirare le pillole di chemio da portare a casa; le danno sfuse e sono rigorosamente contate. È giusto con quello che costano (circa 3500euro a ciclo) e per quello che servono è sciocco farne scorta. Poi il modulo con le medicine che devo prendere a casa e le modalità di somministrazione. Infine si compila il tesserino con i prossimi appunatmenti.
“Grazie dottore, arrivederci”.
Ripasso nel corridoio-sala d’aspetto ed entro nel day hospital, vado nella sala infermieri a consegnare il foglio della terapia.
“Grazie la chiamiamo noi, ha il numero?”
“No l’ho lasciato dal medico”
“Allora la chiamo per nome”
Ritorno nel corridoio-sala d’aspetto, le persone ora sono di più.
Quando mi chiamano sono oramai le 10:30. Peccato significa che se non ci saranno problemi finirò alle 16:00.
Mi fanno accomodare nella sala con le poltrone, arriva l’infermieria con il vassoio d’acciaio e lo posa nello scaffale dietro alla mia poltrona. Prendo una bottiglia d’acqua dal frigo e mando giù le cinque pillole rosa di chemio.
“Quale braccio usiamo oggi?”
“Il destro” rispondo io e si inizia.