La ricchezza non fa la felicità 

   
Chi ha detto che la ricchezza non fa la felicità ha sintetizzato in questa frase una verità profonda e in questa sintesi é riuscito anche ad includere dei concetti opposti al senso proprio della frase. Infatti quando la sentiamo quasi sempre dal profondo una vocina dice “si, però…”.

La ricchezza é una di quelle cose che tutti crediamo di conoscere e di comprendere. Parlo ovviamente della ricchezza materiale, non della ricchezza d’animo o di qualsiasi cosa di piú nobile dell’accumulare beni materiali. Anche se nessuno lo ammette o lo dichiara, tutti sappiamo che la ricchezza si riferisce ad una cosa o ad una misura del tutto relativa per definizione e per percezione.
Per definizione perché é uno stato che non lo si può immaginare se non paragonato ad un’altro, che sia povertà o normalità non importa. Sembra assurdo, ma se tutti fossero ricchi e lo fossero sempre stati non lo saprebbero: una società siffatta é concepibile in un racconto di fantascienza. 
Per percezione perché a seconda di una serie di fattori é tale o meno, o abbondante.
La ricchezza é relativa nel tempo. Quando iniziai a lavorare, nella seconda da metà degli anni ’70, pensavo che non avrei avuto bisogno di nulla con uno stipendio di due milioni. Oggi con l’equivalente in euro siamo vicini alla soglia della povertà. Questo perché la ricchezza, in quanto cumulo di beni materiali, non ma tiene lo stesso valore nel tempo.

La ricchezza é relativa nello spazio. Forse in Egitto o ai tropici avere disponibile una marea di ghiaccio é ricchezza, ma in Groenlandia no. Anche monetizzando il concetto, 500 euro al mese in Madagascar sono tutt’ora una ricchezza sognata da molti, in Italia no.

La ricchezza é relativa tra le persone. Nel mio quartiere, in piazzetta, ho visto un uomo della mia età, che da sempre discuteva di moto con gli amici davanti al bar, arrivare felice con la sua moto nuova fiammante. Per altri una moto suona come una inutilità o addirittura una sofferenza. La ricchezza é percepita differentemente perché differenti sono i bisogni. 

I bisogni. Con quest’altro termine si rischia di divagare, perché anche qui siamo nel relativismo, anzi nel relativismo-differenziale. Perché dobbiamo distinguere tra quelli che sono i bisogni primari, come respirare, bere, mangiare, dai conseguenti che sopraggiungono quando i primari sono soddisfatti o quando sono garantiti a tal punto da essere dimenticati. Ma appunto qui non voglio affrontare temi differenti e mi basta constatare quanto, il concetto di ricchezza, sia variabile tra le persone che vivono nello stesso luogo e nello stesso tempo.

Pur con tutte queste variabili, una misura di ricchezza l’abbiamo tutti in mente più o meno esplicita. Ma una caratteristica comune a questo concetto è che questa misura di solito è rispetto ad un livello che non abbiamo e che vogliamo raggiungere. Quanti, in cuor loro, stimano come ricchezza quello che hanno? Nella nostra frase di partenza tale stima, e il suo collocamento tra realtà presente e obiettivo futuro, racchiude il concetto di felicità. Ed è sottinteso che il percorso verso il raggiungimento del nostro obiettivo di ricchezza coincida con un percorso verso la felicità. In questo assunto si nasconde l’inganno, non perché non possa essere vero, ma perché, per il suo relativismo, una volta raggiunto un livello di ricchezza potremmo dover sottostare a cambiamenti in tempo, in spazio o sociali che ricollocano differentemente il nostro concetto di ricchezza e la felicità ad esso associata. 
Ma qui cado nuovamente nella trappola. Perché, mi chiedo, la felicità è solo fatta di quella felicità che si ottiene con un livello di ricchezza? Anche gli Stati Uniti nel giro di 11 anni sono capitolati rispetto al concetto di felicità espresso nella dichiarazione di indipendenza del 1776, mutandolo nel più misurabile concetto di benessere contenuto nella successiva Costituzione. Tornando alle mie modeste riflessioni direi che è qui che si concretizza l’essenza della verità contenuta nella frase. La ricchezza non fa la felicità perché la felicità non è composta soltanto da aspetti materiali che si possono ottenere con la ricchezza. Anzi, direi che in mancanza degli altri aspetti la felicità materiale viene spazzata via. Quanti ricchi hanno una vita infelice? Quanti, una volta diventati ricchi non raggiungono la felicità sperata perché avvolti dalla paura di perdere questa ricchezza? Il nodo vero penso che sia più intimo e legato a come ciascuno di noi riesca a colmare le altre componenti della felicità.
E la vocina? Quella che ci fa dire “si, però…”. Perché si alza ad installare il dubbio? Il ragionamento fin qui sembra non faccia una piega. Ma la vocina non sparisce. Penso che una ricchezza tale da soddisfare e mantenere con tranquillità i beni primari (ricordiamo che acqua e aria sono tutt’oggi o minacciati o non alla portata di molte persone) sia irrinunciabile e come tale debba essere naturale aspirazione di tutti. E come tale debba essere un qualcosa incentivato ed aiutato a livello sociale. Ma il fermarsi, il rallentare questa corsa verso un obiettivo mutevole é responsabilità di ciascuno di noi. Non può non nascere da una valutazione personale dettata dalla ragione o dalla coscienza che permetta di avere spazio e tempo per raggiungere le altre facce della felicità. Il rischio è quello di passare una vita concentrati nel raggiungimento di una felicità che non si raggiunge o sparisce in poco tempo.
Giorni fa ho letto la notizia che Poggiolini (ricordate? Quello con 10 miliardi nascosti nell’imbottitura del puff, lingotti e gioielli?) era ospite in una casa di riposo abusiva. Chissà se era felice?

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